TRIBUNALE DI PADOVA 
                           Sezione penale 
 
    Ordinanza di rimessione degli  atti  alla  Corte  costituzionale,
art. 134 Costituzione e 23, comma 2, legge 11 marzo 1953, n. 87. 
    La presente ordinanza annulla  e  sostituisce  la  precedente  di
questo Tribunale datata 30 marzo 2016 a seguito di  rettifica  errori
materiali. 
    Il Giudice  dott.  Claudio  Elampini,  chiamato  a  decidere  per
competenza in ordine al procedimento penale iscritto al  n.  12/13978
R.G.N.R. e n. 15/302 R.G. Mon. a carico di Floriani Gigliola  nata  a
Castelfranco Veneto (Treviso) il 30 luglio 1966 imputata del reato di
cui agli articoli 624 e 625, n. 5 e n. 7 del codice penale, decidendo
sulla  questione  di  legittimita'   costituzionale   sollevata   dal
difensore di fiducia avv. Giovanni  Gentilini  del  Foro  di  Padova,
espone quanto segue. 
    L'odierna imputata veniva citata a giudizio per il reato  di  cui
agli articoli 624 e 625, n. 5 e n.  7  del codice  penale,  per  aver
agito con altre due donne non identificate ed  essersi  impossessata,
al fine di trarne profitto per se o per altri, di uno spolverino  del
valore di € 45,00 sottraendolo del negozio  «Incontro  Moda»  in  San
Dono di  Massanzago,  ove  era  detenuto,  agendo  con  destrezza  ed
infilando il capo sottratto nella borsa mentre le altre due  complici
distraevano  la  titolare  del  negozio,  con  l'aggravante  di  aver
commesso il fatto in tre persone e su  cose  esposte  per  necessita'
alla   pubblica   fede.   Con   recidiva   specifica   reiterata   ed
infraquinquennale. 
    Dall'istruttoria  effettuata  emerge  come  il  fatto  di   reato
contestato possa ritenersi nell'ambito  di  un  giudizio  prognostico
integrato nei suoi elementi oggettivo  e  soggettivo  cosi'  come  le
aggravanti contestate. 
    In base  alla  giurisprudenza  di  merito  di  codesto  Tribunale
consolidatasi  nel  tempo,  la  figura  delittuosa   contestata,   in
relazione  al  valore  del  bene  sottratto,  integrerebbe,  se   non
contestate le aggravanti ad effetto speciale, i requisiti,  sotto  il
profilo della lieve entita', dell'istituto di  cui  all'art.  131-bis
del codice penale. 
    La causa di non punibilita'  non  potrebbe  essere  nel  caso  di
specie comunque applicata, allo  stato  attuale  dell'interpretazione
giuridica,  poiche'  dovrebbe  riconoscersi  nei  precedenti   penali
dell'imputata   una   sorta   di   abitualita'   che    esclude    la
concretizzazione dei requisiti previsti dalla norma. 
    Inoltre, l'esclusione del bilanciamento delle aggravanti  con  le
attenuanti rilevabili e riconoscibili, quali certamente nel  caso  di
specie quella di cui all'art. 62, n. 4 del codice penale, comporta il
superamento dei  limiti  edittali  stabiliti  dall'art.  131-bis  del
codice penale per la sua applicazione. 
    Tale contesto di fatto comporta un'effettiva distonia normativa a
fronte di fatti di minima offensivita' la  cui  unica  differenza  e'
data dallo stato soggettivo del reo. 
    Sul punto la difesa ha ritenuto di svolgere istanza  al  fine  di
valutare il promovimento di un incidente di costituzionalita' volto a
sanare tale discrasia. 
    Il Tribunale, valutate le osservazioni svolte dal legale, osserva
quanto segue. 
    1) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1,  lettera
m), legge 28 aprile 2014, n. 67 (Delega al Governo in materia di pene
detentive non carcerarie) per contrasto con gli articoli  3,  25.2  e
27.3 della Costituzione nella parte in  cui  e'  scritto  «e  la  non
abitualita' del comportamento» e,  per  effetto  derivato,  dell'art.
131-bis del codice penale, comma 1, con riferimento alle parole «e il
comportamento risulta abituale», e comma 3 (nella sua interezza). 
Violazione dell'art. 3 Cost. 
    Con l'approvazione della legge n. 67/2014,  il  Parlamento  della
Repubblica ha conferito delega al Governo, tra le altre, di  «lettera
m) escludere la punibilita' di condotte sanzionate con la  sola  pena
pecuniaria o con pene detentive non superiori nel  massimo  a  cinque
anni, quando risulti la particolare tenuita'  dell'offesa  e  la  non
abitualita' del  comportamento,  senza  pregiudizio  per  l'esercizio
dell'azione civile per il  risarcimento  del  danno  e  adeguando  la
relativa normativa processuale penale». 
    Dall'esame  testuale  della  norma  delegante  emerge   come   il
legislatore, fermi  restando  altri  requisiti  che  allo  stato  non
vengono in rilievo, abbia inteso costruire l'istituto di nuovo  conio
attorno ad un duplice, paritetico presupposto:  l'oggettiva  modestia
del danno inflitto e la non abitualita' del comportamento dell'autore
del reato. 
    Secondo la difesa dell'imputata l'introduzione di una clausola di
non punibilita'  di  natura  valoriale  ontologicamente  ancorata  al
mediocre valore del danno  da  reato,  non  puo'  subire  limitazioni
applicative di natura squisitamente autoriale. 
    Come emerso chiaramente dalla lettura della norma, il legislatore
non ha inteso esprimere disegni abrogativi o depenalizzanti, ne', per
altro verso, adottare un istituto volto ad apprezzare la lieve offesa
patrimoniale  in  termini  obiettivi  e  lineari.  Trattasi   di   un
circostanza di non punibilita', che  esclude  l'applicabilita'  della
pena,  ma  non  impedisce  l'esistenza  del  reato  e   non   esclude
l'antigiuridicita' penale del fatto. E tuttavia, la riconduzione  del
modello normativo  alle  forme  di  una  clausola  di  esclusione  di
punibilita', non appare compatibile con la coeva presenza di  profili
soggettivi  premiali,  in  grado  di  aprire  ad  un   sindacato   di
meritevolezza subiettiva, di per se' stesso disparitario. 
    Il legislatore non si e' limitato  a  devolvere  al  Giudice  una
valutazione  sulla  reale  incidenza  del   danno   inflitto,   cosi'
consentendo l'affermarsi di un giudizio tendenzialmente destinato  ad
uniformarsi, nel diritto vivente, in favore  dell'applicazione  della
norma in termini  obiettivi  ed  eguali  nei  confronti  di  tutti  i
consociati, ma ha introdotto un elemento immateriale,  da  profilarsi
di volta in volta, di valenza paritetica al  requisito  patrimoniale,
idoneo ad ingenerare disparita' applicative che non trovano  adeguata
copertura nella ragionevolezza. 
    E' agevole osservare come, esemplificando, la sottrazione  di  un
qualsiasi  bene  vile  (a  prescindere  qui  ed  ora   da   eventuali
circostanze aggravanti) trovi sensibilita' punitiva diversa a seconda
del tipo di autore, si' che, a parita' di  particolare  tenuita'  del
danno inflitto in esito ad eguale condotta, egualmente circostanziata
(o non circostanziata), l'ordinamento rinuncia a punire solo l'autore
ritenuto  meritevole,  in  base  a  giudizio  del   tutto   sganciato
dall'esame del fatto, inteso in senso  giuridico  quale  sequenza  di
condotta-nesso-evento. 
    E l'esempio formulato non sembra sfuggire al modulo  concorsuale,
ben potendosi dare l'impunita' di uno solo tra  altri  correi,  sulla
sola scorta di una qualifica soggettiva che,  persino  a  parita'  di
contributo causale,  finisce  con  il  porlo  in  una  condizione  di
irragionevole privilegio. 
    Il modello stesso di causa di esclusione della pena, inteso quale
situazione esterna al fatto umano e che non esclude il reato,  ma  in
presenza della quale il legislatore ritiene non si debba applicare la
sanzione  penale  per  ragioni  di  mera   opportunita',   non   puo'
presentarsi  nella  geometria  variabile  (e  quindi   discriminante)
secondo la quale e' stato costruito l'istituto di nuova concezione. 
    E' nota  la  ricorrenza  nell'ordinamento  penale  di'  cause  di
esclusione della punibilita' di rango essenzialmente  soggettivo  (si
pensi all'art. 384.1  del  codice  penale,  ovvero  649.1  del codice
penale) e tuttavia la disparita'  di  trattamento  trova  ragionevole
giustificazione nella sussistenza del vincolo familiare che  segna  i
rapporti tra autore del fatto e destinatario dei suoi effetti dannosi
(Corte costituzionale sentenza n. 223/2015), e dunque alla luce di un
ben  individuato  contemperamento  di  interessi,  costituzionalmente
apprezzabile. 
    Anche in tali casi, tuttavia, la punibilita' e' comunque  esclusa
in favore di chiunque si trovi in una condizione  di  qualificata  ed
oggettiva vicinanza alla persona offesa: a dire, in sintesi,  che  la
clausola di impunita' si muove  su  un  terreno  comunque  oggettivo,
predefinito, e d'interesse per  chiunque  si  trovi  nella  richiesta
condizione. 
    Di  contro,  all'art.  1,  lettera  m)  della  legge  delega,  la
compresenza di un requisito  di  natura  oggettiva  (insensibile  per
definizione  al  soggetto  agente)  ed  uno  di   natura   soggettiva
(genericamente individuato nell'assenza di un comportamento abituale)
propone un modello di clausola abdicativa della punibilita'  che  non
scorre attorno ad un perno rigido  e  predefinito,  applicabile  alla
totalita' dei cittadini, ma solo ad una parte di essi, nei  confronti
dei quali lo Stato dimostra disinteresse repressivo. 
    La partizione mista  dei  requisiti  di  operativita'  del  nuovo
istituto ha l'effetto di porlo in rotta di collisione con  il  canone
di  eguaglianza,  laddove  alla   generica   e   neutra   valutazione
patrimoniale viene affiancata una specifica  e  ben  marcata  analisi
soggettiva, incoerente con l'altra  condizione,  irragionevole  nella
diversita'  di   trattamento   che   ingenera,   ingiustificata   con
riferimento allo stesso scopo perseguito dalla riforma. 
    In altri termini, detto della insindacabile discrezionalita'  del
legislatore nel modulare un  criterio  moderatore  della  punibilita'
ancorato alla qualita' concreta dell'offesa arrecata,  cio'  che  non
puo'  ammettersi  costituzionalmente  e'  la  coessenzialita'  di  un
requisito autoriale, poiche'  l'esclusione  di  taluni  soggetti  dal
novero dei destinatari della norma ripropone  un  sistema  imperniato
sul tipo d'autore. 
    Converra' richiamare sul punto quanto recentemente ribadito dalla
Corte costituzionale con la sentenza  n.  251/2012,  resa  in  merito
all'illegittimita' del divieto di bilanciamento tra (la oggi abrogata
circostanza di cui  all')art.  73.5,  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 309/1990 e art. 99.4 del codice penale. 
    «Le rilevanti differenze quantitative delle comminatorie edittali
del primo e del quinto comma dell'art. 73 del decreto del  Presidente
della Repubblica n. 309 del  1990  rispecchiano,  d'altra  parte,  le
diverse caratteristiche oggettive delle due  fattispecie,  sul  piano
dell'offensivita'  e  alla  luce   delle   stesse   valutazioni   del
legislatore:  il  trattamento  sanzionatorio  decisamente  piu'  mite
assicurato al fatto di "lieve entita'", la  cui  configurabilita'  e'
riconosciuta dalla giurisprudenza  comune  solo  per  le  ipotesi  di
"minima offensivita' penale" (Cassazione pen., S.U., 24 giugno  2010,
n. 35737), esprime una dimensione offensiva la cui effettiva  portata
e'   disconosciuta   dalla    norma    censurata,    che    indirizza
l'individuazione della pena concreta verso un'abnorme  enfatizzazione
delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata,  a
detrimento delle componenti oggettive del reato.». 
    Nelle  parole  della  Consulta  emerge   chiara   la   cifra   di
illegittimita' di una norma  che,  a  causa  della  preponderanza  di
elementi di natura soggettiva (recidiva) - estranei ex se al  «fatto»
- finivano per soperchiare, «disconoscendola»  la  effettiva  portata
della norma mitigatrice. 
    Ed ancora e piu' chiaramente: «la recidiva reiterata  riflette  i
due aspetti della  colpevolezza  e  della  pericolosita',  ed  e'  da
ritenere che questi, pur essendo pertinenti  al  reato,  non  possano
assumere,  nel  processo  di  individualizzazione  della  pena,   una
rilevanza tale da renderli comparativamente  prevalenti  rispetto  al
fatto oggettivo: il principio di offensivita' e' chiamato ad  operare
non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma  anche
rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla  individualizzazione
della pena e sulla sua determinazione finale. Se cosi' non fosse,  la
rilevanza dell'offensivita' della fattispecie base potrebbe risultare
"neutralizzata" da un processo di individualizzazione prevalentemente
orientato  sulla   colpevolezza   e   sulla   pericolosita'»   (Corte
costituzionale, sentenza citata). 
    Mutuando l'insegnamento del Giudice delle leggi emerge  come  gli
effetti dell'attuale disciplina, derivanti  dall'ossequio  (in  parte
qua) alla legge delega siano  ancora  piu'  distorsivi  e  stranianti
rispetto al canone costituzionale di riferimento. 
    Provvedendo all'elisione del divieto di prevalenza  dell'(allora)
circostanza  diminuente  della  speciale  tenuita'  del  fatto  sulla
contestata recidiva, la Consulta ha censurato la preponderanza  della
componente  autoriale  dell'illecito  laddove  ostativa  alla   piena
espansione del principio di offensivita', non consentendo  disparita'
di trattamento di tipo  soggettivo  a  fronte  di  fatti  scarsamente
offensivi. 
    La legge delega  richiamata  propone  uno  sbilancio  assai  piu'
marcato. 
    Da  un  lato,  il  legislatore  non  ha  inteso  introdurre   una
mitigazione della sanzione, ma una deroga  alla  punibilita',  ovvero
una vera e propria rinuncia alla persecuzione in giudizio, in  deroga
allo stesso art. 112 Cost. 
    Dall'altro, ha posto l'assenza di comportamento abituale in  capo
al reo sullo stesso piano della presenza di un'offesa particolarmente
tenue, in posizione di assoluta e  necessaria  parita'  (la  suddetta
«coessenzialita'»), laddove la presenza di  contegni  abitudinari  ha
effetto   interdittivo   (in   nessun   modo   bilanciatile)    sulla
valorizzazione di un'offesa  modesta  e,  in  ultima  analisi,  sulla
ridetta piena espansione del principio oggettivo di offensivita'. 
    Assai piu' gravemente dell'illegittimo modello censurato  con  la
sentenza n. 251/2012, «limitato» al mero  giudizio  di  bilanciamento
tra circostanze, la legge delega ripresenta le  medesime  alterazioni
gia' esaminate in precedenza, prive di alcuna ragionevole  copertura,
consegnandosi alle medesime censure in relazione al superiore e  piu'
grave tema della  punibilita',  momento  presupposto  ed  assai  piu'
pregnante delle fattispecie sin qui vagliate  dalla  Consulta,  avuto
riferimento alla natura dei diritti primari in gioco. 
    La previsione di co-essenziale comportamento  inabituale  implica
quale  conseguenza  l'automatica  disapplicazione  della   causa   di
punibilita' ogniqualvolta il reo non sia nuovo al delitto. Si tratta,
come pare, di una soluzione necessitata dalla chiarezza del testo  di
legge che, intorno ai trascorsi giudiziari dell'autore ha  costituito
una  presunzione  assoluta  secondo  la  quale  il  peculiare  status
soggettivo dell'autore spiega effetti di maggior gravita'  sul  piano
oggettivo, rendendo offensivo e perseguibile cio' che altrimenti  non
assurgerebbe a giustificare la sanzione penale. 
    In merito pare opportuno ricordare  cio'  che  afferma  la  Corte
costituzionale, nella recente sentenza n. 185/2015 in relazione  alle
presunzioni  introdotte  per  via  legislativa:  «(...)  Secondo   la
giurisprudenza  costituzionale,  "le  presunzioni  assolute,   specie
quando limitano un diritto fondamentale  della  persona,  violano  il
principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe'  se
non rispondono a dati di esperienza  generalizzati,  riassunti  nella
formula   dell'id   quod   plerumque   accidit".   In    particolare,
"l'irragionevolezza della presunzione assoluta si puo' cogliere tutte
le volte in cui sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti  reali
contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa"
(ex multis, sentenze n. 232 e n. 213 del 2013, n. 182 e  n.  164  del
2011, n. 265 e n. 139 del 2010)» [Corte costituzionale, ibidem]. 
    Nel caso di specie, la presunzione  in  questione,  che  discende
dalla ritenuta  maggior  pericolosita'  del  reo,  avrebbe  l'effetto
automatico di conferire maggior disvalore al fatto,  rendendolo  piu'
aggressivo per il solo fatto che proviene  da  soggetto  consueto  al
delitto, e cosi' idoneo  ad  arrecare  maggior  danno  al  patrimonio
dell'offeso. 
    La presunzione riportata appare alquanto  priva  di  logica.  Una
condotta naturalisticamente obliterabile  sul  piano  penale  per  il
mediocre danno che crea diventerebbe il suo  contrario,  sol  perche'
agita da soggetto  abituale.  Sul  punto  la  Corte  fondamentale  ha
ribadito che «(...) Un dato del genere infatti non esiste, posto  che
per le ragioni indicate ben  possono  ipotizzarsi  accadimenti  reali
contrari  alla  generalizzazione  presunta»  [Corte   costituzionale,
ibidem]. 
Sul sindacato di ragionevolezza. 
    Il giudizio che si puo' devolvere alla  Consulta,  qui  puramente
incentrato sulla compatibilita'  con  il  principio  di  uguaglianza,
sembra articolabile in duplice filare. 
    Da un lato,  denunziando  la  norma  per  la  sua  illegittimita'
intrinseca: si scrutina la disposizione in  punto  di  ragionevolezza
intesa quale «imperativo di giustizia»,  secondo  quella  particolare
tipologia di giudizio anche denominata  controllo  di  ragionevolezza
intrinseca, che puo' darsi ogni  qualvolta  e'  assente  o  puramente
rafforzativo l'utilizzo di un tertium comparationis. 
    La norma di specie, per la natura intima del vizio  che  propone,
sembra censurabile senza l'ausilio  di  alcuna  norma  di  confronto,
poiche' essa e' direttamente confliggente con i valori e  i  principi
alla base del dettato costituzionale. 
    Dall'altro lato, poi, la disposizione qui in esame puo' utilmente
essere  scrutinata  secondo  altra  declinazione  del   lemma   della
ragionevolezza. 
    Si va dicendo del saggio che la Consulta puo' essere  chiamata  a
portare in punto di razionalita' vista come  «non  contraddittorieta'
interna del sistema giuridico» (G. Zagrebelsky, su tre aspetti  della
ragionevolezza,  in  AA.VV.  Il  principio  di  ragionevolezza  nella
giurisprudenza della Corte costituzionale, Milano, 1994, pag. 182). 
    A tale  categoria  sarebbero  ascrivibili  anzitutto  i  casi  di
incompatibilita' tra norme, ma anche di «irriducibilita' di regole  a
principi ispiratori», di «incongruita' dei mezzi rispetto  ai  fini»,
di «ingiustificatezza dell'eccezione rispetto alla  regola»  (ancora,
in tale senso, G. Zagrebelsky, op. cit.). 
    Tale specifica valutazione, componibile attorno  al  lemma  della
razionalita', trae fondamento dall'idea, assiomatica, circa la natura
razionale e non contraddittoria  dell'ordinamento,  di  modo  che  il
compito  dell'interprete-giudice  costituzionale   e'   semplicemente
quello di espungere dall'ordinamento i rari  casi  di  contraddizione
che ciononostante si presentino. 
    E  dunque,  in  predicato  di  giustificare  la   non   manifesta
infondatezza   della   questione   proprio    sul    terreno    della
irragionevolezza, occorre svolgere qualche  riflessione  sull'esegesi
del concetto di «comportamento  abituale»  che,  tramite  l'esercizio
della delega con il decreto legislativo n. 28/2015, ed il  pedissequo
sostato giurisprudenziale,  si  e'  oramai  affermata  con  forza  di
diritto vivente. 
    E cio' anche al segnato scopo di  individuare  un  utile  tertium
comparationis cui ancorare ogni valutazione in punto di disparita' di
trattamento. 
    Sul punto, il legislatore delegato ha inteso esercitare la delega
mediante l'approvazione di una norma espressamente interpretativa (ed
in tal  senso  descrittiva)  del  ridetto  «comportamento  abituale»,
declinandolo in ogni  accezione  ritenuta  ostativa  all'operativita'
della causa d'impunita'. 
    Il contenuto dell'art. 131-bis,  comma  3  del codice  penale  si
segnala  ictu  oculi  per  l'eterogeneita'  dei  termini  di  cui  e'
composto, alcuni obbedienti a  rigore  sistematico  ed  evocativi  di
istituti  codificati  (delinquente   abituale,   professionale,   per
tendenza), altri generici, «quali l'aver commesso  piu'  reati  della
stessa  indole»,  ovvero  reati  che  «abbiano  ad  oggetto  condotte
plurime, abituali e reiterate». 
    Cio' che pare evidente e' il principio secondo  cui  l'esclusione
della punibilita' opera con  riferimento  a  situazioni  sottratte  a
qualsiasi concreto  elemento  tassativo,  abbandonando  l'abdicazione
della  punibilita'   ad   un   sindacato   i   cui,   contorni   sono
sostanzialmente indefiniti,  e  cosi'  irriconoscibili  nella  stessa
grammatica del codice di  merito.  Ne  pare  buona  testimonianza  la
variegata produzione giurisprudenziale che, sul punto, si  e'  andata
registrando. 
    Ha correttamente osservato la dottrina come «la formula letterale
della  commissione  "di  piu'  reati  della  stessa  indole"  non  fa
esplicito riferimento alla recidiva» (Amato,  Guida  al  diritto,  n.
1/2016). Ne viene come, in un senso astratto anche il recidivo  possa
beneficiare dell'istituto, ma anche, in altro e piu' concreto  senso,
il  non   recidivo   possa   rimanerne   escluso   (in   tal   senso,
sull'applicabilita' al recidivo semplice, Cassazione, sezione III, n.
29897/2015, Gau e sezione III, n.  44353/2015,  Gambino).  E'  invece
certamente ostativa la condizione di recidivo reiterato e  specifico,
giudiziariamente ravvisata, secondo il principio logico per il  quale
il piu' comprende il meno,  e  dunque  la  ricorrenza  di  condizioni
legittimanti  la  recidiva   sarebbe   assorbente   delle   generiche
condizioni  descritte  dalla  norma  neointrodotta  (in  tal   senso,
Cassazione  sezione  III,  n.  40350/2015,  Savia,  sezione   V,   n.
33304/2015 e sezione VI, n. 45073/2015, Barrara). 
    E' parimenti ritenuta ostativa anche la situazione di  colui,  in
difetto di contestazione  di  recidiva  specifica  e  reiterata  (per
difetto di passaggio in giudicato dei  relativi  accertamenti)  abbia
comunque commesso  «piu'  reati  della  stessa  indole»,  addirittura
nell'ambito   del    medesimo    procedimento    ove    si    discuta
dell'applicazione della causa di non punibilita'  (cosi',  Cassazione
sezione  III,  n.  29897/2015,  Gau,  sezione  III,  n.   44353/2015,
Gambino), con il risultato secondo cui la contestazione simultanea di
piu' reati connessi  tra  loro  e  della  medesima  indole  legittima
l'esclusione  della  causa  di  non  punibilita',   indipendentemente
dall'incensuratezza formale e sostanziale  dell'imputato  (Cassazione
sezione III n. 38366/2015, Perlongo). 
    Medesima sorte hanno sinora seguito ipotesi di  contestazioni  di
piu' reati avvinti dal nesso della continuazione (Cassazione  sezione
III n. 27135/2015, Corrieri, sezione III, n. 44353, Gambino,  sezione
III, n. 44336, Perlino). 
    Nessuna  possibile  applicazione,  in  alcuna   forma,   e'   poi
riconosciuta ai reati cosiddetti abituali, in relazione ai quali  non
puo' darsi applicazione alla novella, a prescindere  da  qualsivoglia
entita' del danno inflitto ovvero di connotazione  della  fattispecie
ovvero, ancora, di profilo soggettivo dell'imputato. 
    Ne' maggior fortuna hanno  sinora  avuto  imputati  raggiunti  da
contestazioni di condotte «plurime e reiterate» anche  disgiunte  dal
nesso della continuazione  (Cassazione,  sezione  I,  n.  34770/2015,
Corvino). 
    La genericita'  della  trama  lessicale  della  legge  delega  ha
consentito l'affermazione di un  testo  di  legge  che,  di  per  se'
stesso, apre a scenari contraddittori con il contenuto  del  comma  1
del medesimo art. 131-bis del codice penale. 
    L'ambiguita' dei lemmi utilizzati e la commistione  tra  istituti
codificati e concetti indefiniti, con  essenziale  equiparazione  tra
situazioni soggettive diversissime  tra  loro,  espone  l'istituto  a
quella valutazione di irrazionalita' intrinseca di cui sopra. 
    Su piano piu' avanzato, poi, l'esegesi giurisprudenziale  che  ne
e' seguita offre plastica dimostrazione della irragionevolezza  anche
in chiave comparatistica, avuto riferimento  a  quanto  espressamente
statuito dalla Corte costituzionale in tema di recidiva reiterata. 
    Proprio le guarentigie riaffermate in tema  di  bilanciamento  di
circostanze a favore di soggetti gravati da precedenti giudizialmente
accertati (e quindi  in  una  situazione  di  chiarezza,  rectius  di
determinatezza, assai piu' certa e marcata di  quella  relativa  agli
autori di «comportamenti abituali») impongono  di  ritenere  come  le
vaghe preclusioni di applicabilita' di una ben piu'  rilevante  causa
di non punibilita' non possano superare il vaglio  del  sindacato  di
razionalita'. 
    Muovendo dal ragionamento della Consulta, (ex plurimis,  sentenza
n. 251/2015) se  nessun  automatismo  discriminante  puo'  darsi  sul
terreno di un «mero» bilanciamento tra circostanze in presenza di una
condizione di recidiva formalmente dichiarata (con tutte le  garanzie
che, peraltro, discendono da tale dichiarazione), non  si  coglie  la
conformita' costituzionale di una norma  che  opera  con  ancor  piu'
ampie   preclusioni   sul   terreno   oggettivo   della   irrilevante
offensivita' del  fatto  (anche  nominalmente  declinato  come  tale,
secondo la rubrica legis). 
    E cio' avuto precipuo riferimento al caso di specie, connotato da
imputazione    aggravata    da    recidiva    reiterata     specifica
infraquiquennale. 
    Ma la stonatura (a prescindere dal fatto che non rileva nel  caso
in  esame)  appare  vieppiu'  grave  con  riguardo   ai   trattamenti
disparitari  in  odio  a  soggetti  che  sfuggono   persino   ad   un
inquadramento tassativo quale quello di cui agli art. 99  del  codice
penale (ed anche 103, 105 e 106 del codice penale). 
    Con le parole della dottrina  piu'  recente  si  puo'  concludere
(L'offensivita' europea come  criterio  di  proporzione  dell'opzione
penale Gaetano Stea) «La giurisprudenza costituzionale  ha  da  tempo
precisato che la necessaria lesivita', astrattamente, costituisce  un
limite all'attivita' del legislatore e, concretamente,  determina  un
onere per il giudice che, nel momento applicativo, deve accertare, in
concreto, se il comportamento posto  in  essere  lede  effettivamente
l'interesse tutelato dalla norma, al fine di impedire una  arbitraria
ed illegittima dilatazione della sfera dei  fatti  da  ricondurre  al
modello legale.  Nella  letteratura  penalistica  e'  evidenziato  il
consolidato orientamento della Consulta per cui  il  sindacato  sulle
scelte contenutistiche del legislatore penale e' limitato al relativo
esercizio  distorto  o  arbitrario,  cosi'  da  confliggere  in  modo
manifesto con il canone della ragionevolezza.  Si  sottolinea  sempre
che  la  Corte  costituzionale,  invero,  non   ha   mai   utilizzato
direttamente il principio  di  necessaria  lesivita'  come  parametro
autonomo per dichiarare l'illegittimita' di una norma penale, ma solo
come riflesso  (appunto)  del  criterio  della  ragionevolezza.  Tale
criterio si fonda sul principio di  eguaglianza  di  cui  all'art.  3
Cost. ed, in stretta connessione  con  il  criterio  di  proporzione,
esige che la scelta legislativa rispetto  al  bene  e  rispetto  alla
predisposizione di tutela penale sia  razionalmente  argomentabile  e
controllabile». 
    Sotto tale punto  di  vista,  e'  sufficiente  richiamare  quanto
enunciato dalla Corte delle leggi, nelle sentenze n.  263/2000  e  n.
30/2007 e n. 333/1991 in cui i giudici costituzionali, per i reati di
pericolo  astratto,  pur  ammessi  nel  nostro   ordinamento,   hanno
affermato che «e' riservata  al  legislatore  l'individuazione  (...)
delle condotte alle  quali  collegare  una  presunzione  assoluta  di
pericolo (...), purche' non sia irrazionale o arbitraria, cio' che si
verifica allorquando  non  sia  ricollegabile  al'id  quod  plerumque
accidit». 
    Proprio intorno all'assenza di una regola massimale, (sentenza n.
251/2012) che invece dovrebbe offrire la copertura  costituzionale  e
ricondurre a ragionevolezza la disparita' del  singolo  caso,  dimora
l'illegittimita' denunciata; non rinvenendosi alcuna ragione di  tipo
notorio  o  esperienziale  secondo  la  quale  un  fatto  lesivo  cui
l'ordinamento penale guarda con  dichiarato,  oggettivo  disinteresse
dovrebbe, di contro, legittimare un processo ed una pena (di nuovo il
principio di  proporzionalita')  sol  perche'  commesso  da  un  tipo
d'autore. 
Violazione del parametro di cui all'art. 25.2 Cost. 
    Sussiste altresi' la  violazione  dell'art.  25,  secondo  comma,
Cost., che,  con  il  suo  espresso  richiamo  al  «fatto  commesso»,
riconosce rilievo  fondamentale  all'azione  delittuosa  per  il  suo
obiettivo   disvalore   e   non   solo   in   quanto   manifestazione
sintomatologica di pericolosita' sociale;  la  costituzionalizzazione
del principio di offensivita' implica la necessita' di un trattamento
penale differenziato per fatti diversi, senza che  la  considerazione
della  mera  pericolosita'  dell'agente  possa  legittimamente  avere
rilievo esclusivo. 
    L'attuale composizione mista della norma  delegante,  costitutiva
di   uno   statuto   differenziale   in   grado    di    discriminare
l'accessibilita'  all'istituto,  determina  un   contrasto   tra   la
disciplina censurata e l'art. 25, secondo comma, Cost., che  pone  il
fatto  (e  solo  quello)  alla  base  della  responsabilita'   penale
(sentenza n. 249 del 2010) e della  superiore  volonta'  politica  di
accertarne la sussistenza, con esclusione di qualsivoglia  componente
soggettiva di rango  premiale,  riposante  sulla  maggiore  o  minore
consuetudine al crimine. 
Violazione del parametro di cui all'art. 27.3 Cost. 
    Viene infine in rilievo attraverso l'art. 27, comma 3, Cost.,  il
principio di proporzionalita' della  pena  (nelle  sue  due  funzioni
retributiva e rieducativa), poiche' appare evidente che la  punizione
che  discende  da  un  fatto  oggettivamente  privo  di  offensivita'
apprezzabile espone il condannato ad una pena  sproporzionata  ex  se
alla gravita' del reato commesso. 
    E cio', da un lato non puo' correttamente assolvere alla funzione
di ristabilimento della legalita' violata, dall'altro non potra'  mai
essere sentita dal condannato come sanzione rieducatrice. 
    Si va dicendo del principio  di  proporzionalita',  di  crescente
importanza alla luce della  espressa  sua  previsione  nell'art.  49,
comma 3 della Carta di Nizza, secondo cui le pene inflitte non devono
essere  sproporzionate  rispetto  al   reato   (Carta   dei   diritti
fondamentali dell'Unione europea (2000/C 364/01). 
    La stessa  Corte  costituzionale  ha  recentemente  rimarcato  la
centralita' del principio di ragionevolezza, proprio  avuto  riguardo
alla  sua  compressione  in   sfavore   dei   soggetti   attinti   da
contestazione di recidiva  reiterata:  «(...)  E'  fondata  anche  la
censura formulata dal giudice a quo  in  relazione  al  principio  di
proporzionalita'  della  pena  (art.  27,  terzo  comma,  Cost.).  La
disciplina censurata, nel precludere la prevalenza delle  circostanze
attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza,  come  e'  stato  gia'
rilevato da questa Corte con riferimento ad altra  fattispecie,  "una
deroga rispetto a un principio  generale  che  governa  la  complessa
attivita' commisurativa della pena da parte del giudice,  saldando  i
criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali
essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall'art.  27,
terzo comma, Cost., diviene adeguata al  caso  di  specie  anche  per
mezzo dell'applicazione  delle  circostanze"  (sentenza  n.  183  del
2011);  nel  caso  in  esame,  infatti,  il  divieto  legislativo  di
soccombenza  della   recidiva   reiterata   rispetto   all'attenuante
dell'art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica n.
309 del  1990  impedisce  il  necessario  adeguamento,  che  dovrebbe
avvenire  attraverso  l'applicazione   della   pena   stabilita   dal
legislatore per il fatto di "lieve entita'".». 
    L'incidenza della regola preclusiva sancita dall'art. 69,  quarto
comma del codice  penale  sulla  diversita'  delle  cornici  edittali
prefigurate dal primo e dal quinto comma dell'art. 73 del decreto del
Presidente della Repubblica n. 309 del  1990,  che  viene  annullata,
attribuisce  alla  risposta  punitiva  i  connotati  di   «una   pena
palesemente sproporzionata»  e,  dunque,  «inevitabilmente  avvertita
come ingiusta dal condannato»  (sentenza  n.  68  del  2012)»  [Corte
costituzionale, sentenza n. 251/2012]. 
    Traslando  la  forza  dell'enunciato  (reso   con   riguardo   al
bilanciamento)  al  superiore  tema  della  punibilita',  si   dubita
dell'ammissibilita' dell'attuale discrimine. 
Sulla rilevanza della questione ai fini del decidere. 
    E' qui denunciata la carenza  di  conformita'  alla  Carta  della
legge delega. E' del tutto evidente che la questione  posta  assorbe,
in  via  derivata,  la  legge  delegata   in   ogni   sua   specifica
articolazione, con riferimento al primo e al  terzo  comma  dell'art.
131-bis del codice penale. 
    Dalla disamina del contenuto degli  atti  e'  dato  ricavarsi  la
sussistenza di una condotta  la  cui  offensivita'  attenuata  (cosi'
battezzabile  per  giurisprudenza  consolidata  di  codesto  ufficio)
legittimerebbe l'applicazione della causa di non punibilita'  di  cui
all'art. 131-bis del codice penale. 
    E tuttavia la coeva  accertata  ricorrenza  di  un  comportamento
abituale in capo all'imputata (in fattispecie  formalmente  inqudrato
nella contestazione  di  una  recidiva  specifica  infraquinquennale)
impedisce  la  fruizione  dell'istituto,  esponendo  la  prevenuta  a
giudizio di responsabilita' e pedissequa sanzione. 
    Del resto non  ci  si  trova  al  cospetto  di  una  disposizione
cosidetta polisensa, idonea a legittimare interpretazioni  adeguatici
al dettato costituzionale: in tal senso, la  pregressa  disamina  del
diritto vivente appare ostacolo insuperabile per qualsiasi esegesi si
proponesse di aggirare la fondata  contestazione  dell'aggravante  di
specie. 
    Difficilmente appare evocabile la soluzione indicata dalla stessa
Consulta in punto di disapplicazione dell'aggravante: fatto  richiamo
ai  comuni  criteri  interpretativi  utilizzati  sul  punto,   appare
difficilmente negabile il nesso che «unisce» i precedenti (specifici,
plurimi e ravvicinati) alla regiudicanda, si' che  il  Tribunale  non
sembra  nelle  condizioni  di  diritto  per  poter  percorrere   tale
discessus. 
    Anche a darsi l'ipotesi di una  disapplicazione  della  recidiva,
comunque la genericita' della norma delegante e l'ampia articolazione
di  quella  delegata,  non  consentirebbero  di  superare  la  natura
ostativa che la natura comunque «abituale» il contegno  dell'imputata
manterrebbe a fini applicativi. 
    Per quanto di ragione, ed al fine di evitare di sottoporre a pena
detentiva un soggetto autore di  una  condotta  di  pressoche'  nulla
offensivita',  si  rende  dunque   necessario   rivedere   l'apparato
normativo che rende allo stato inapplicabile la causa  di  esclusione
della  punibilita',  attraverso  l'intervento  ablativo  o   comunque
additivo della Corte costituzionale. 
Sul giudizio di non manifesta infondatezza. 
    L'ordinamento riconosce al Giudice il potere-dovere  di  compiere
una delibazione preliminare della sospetta incostituzionalita'  della
norma. Si tratta di un  filtro  minimale,  utilizzando  il  quale  il
rimettente deve, o puo', limitarsi  a  non  escludere  il  dubbio  di
incostituzionalita', lasciando tuttavia ogni piu' approfondito  esame
della questione alla  Consulta,  e  dunque  anche  quella  della  non
manifesta infondatezza del devoluto. 
    E' notorio come - nel  diverso  tema  dell'interpretazione  delle
norme - la stessa giurisprudenza dei  primi  giudici  abbia  ribadito
come il giudice a quo, prima di rimettere gli atti, debba compiere lo
sforzo di ricercare un'interpretazione della norma costituzionalmente
orientata, conforme ed adeguatrice (ex plurimis,  cfr.  ordinanze  n.
491/1987  e  n.  177/2000)  e   debba   astenersi   dal   prospettare
interpretazioni perplesse o, a fortiori, del tutto erronee. 
    Per le  ragioni  sopra  esposte,  la  norma  qui  denunciata  non
consente di aprire a letture costituzionalmente  o  convenzionalmente
conformi, venendone la necessita' dello scrutinio incidentale. 
    2) Questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  131-bis,
comma 4 del codice penale, come introdotto dal decreto legislativo n.
28/2015 del  16  marzo  2015,  per  contrasto  con  l'art.  76  della
Costituzione, in relazione all'eccesso della  delega  contenuta  alla
lettera m) dell'art. 1 della legge 28 aprile 2014, n. 67. 
    La  difesa  dell'imputata  si  duole,  con   istanza   di   rango
subordinato alla precedente, della  violazione  del  contenuto  della
delega, con precipuo riguardo a quanto previsto dall'art. 131-bis del
codice penale, comma 4, in tema di criteri  di  determinazione  della
pena ai sensi del comma 1 del medesimo articolo. 
    In merito ai limiti edittali di applicazione del nuovo  istituto,
il  Parlamento  ha  delegato  il  Governo  ad  assumere  a  parametro
sensibile le condotte sanzionate, per quanto qui interessa, «con pena
detentiva non superiore nel massimo a cinque anni».  Non  sono  stati
enunciati criteri di computo della pena ai  fini  de  quo,  ne'  sono
state fornite indicazioni di rango interpretativo. 
    Nell'esercizio della delega, il Governo ha  creato  un  peculiare
criterio  che,  preso  nel  suo  insieme,  non  trova  alcun  modello
corrispettivo nel sistema penale sostanziale e  processuale,  di  cui
non  risulta  di  immediata  evidenza  la  legittimazione  originaria
discendente dal testo della legge delega. 
    Sotto tale, primissimo punto di vista, ci  si  occupa  qui  della
violazione dell'art. 76 Cost. In effetti, la legge delega n.  67/2014
non aveva conferito alcun potere al Governo di introdurre limitazioni
nell'individuazione della forchetta edittale di riferimento, con cio'
non potendosi che intendere che il  limite  sanzionatorio  assunto  a
riferimento ben poteva essere individuato non  solo  facendo  ricorso
agli ordinari canoni di cui agli articoli 4 e 278 codice di procedura
penale, ma alle norme che regolano in via ordinaria  il  giudizio  di
bilanciamento tra circostanze, di cui all'art. 69 del codice penale. 
    Il testo del Governo, da un lato mediante l'esplicita  previsione
di irrilevanza di  qualsivoglia  circostanza  comune,  (ivi  compresa
quella di cui  all'art.  62,  n.  4  del codice  penale),  dall'altro
mediante l'inibizione al ricorso del bilanciamento  tra  circostanze,
ha di fatto esercitato la delega al di fuori del perimetro imposto da
una piana interpretazione della norma penalistica  in  stretto  favor
rei. 
    Il punto appare  particolarmente  delicato  giacche'  attiene  al
rispetto della riserva assoluta di legge prevista dall'art. 25  della
Carta fondamentale. 
    Una  prima  evidenza  dell'eccesso  denunciato  si   evince   dal
raffronto con il contenuto della legge  delega  stessa,  all'art.  1,
lettere c) e g), secondo cui: 
        «c) per i delitti per i  quali  e'  prevista  la  pena  della
reclusione tra i  tre  e  i  cinque  anni,  secondo  quanto  disposto
dall'art. 278 del  codice  di  procedura  penale,  prevedere  che  il
giudice, tenuto conto dei criteri indicati dall'art. 133  del  codice
penale, possa applicare la reclusione domiciliare; 
(...) 
        g) prevedere che,  per  la  determinazione  della  pena  agli
effetti   dell'applicazione   della   reclusione    e    dell'arresto
domiciliare, si applichino, in ogni caso, i criteri di  cui  all'art.
278 del codice di procedura penale». 
    E'  subito  chiaro  che  l'evocazione  dell'art.  278  codice  di
procedura penale, con le regole che esso  prevede,  ha  l'effetto  di
ancorare qualsiasi riferimento ai limiti edittali della legge  delega
a quel criterio di individuazione. 
    In  altri  termini,  secondo  un  canone  di  razionalita',  deve
ritenersi che alla prima disposizione utile il  legislatore  delegato
abbia chiarito che i termini edittali si ricavano  secondo  le  norme
ordinarie, mediante le garanzie in esse previste. 
    Con  riferimento  all'omesso  richiamo  all'art.  278  codice  di
procedura penale nel corpo della lettera m) della legge  delega,  non
sembra evocabile il principio  interpretativo  secondo  cui  ubi  lex
voluit, dixit. 
    Lo impedisce proprio  il  canone  costituzionale  di  riferimento
(art. 25). 
    In effetti, il silenzio della legge delega osservato alla lettera
m) del comma 1 (l'ipotesi  che  ci  riguarda)  non  puo'  che  essere
interpretato quale  rimando  al  criterio  selettivo  previsto  dalla
disciplina  processuale  (art.  278),  gia'  evocato  alle  superiori
lettere c) e g) del medesimo comma. 
    Nondimeno,  il   silenzio   previsionale   non   autorizzava   il
legislatore delegato a costituire un autonomo criterio di computo con
effetti  abrogativi  delle  regole  ordinarie  (art.  278  codice  di
procedura penale) e  dagli  effetti  antitetici  al  contenuto  dello
stesso comma, alle soprastanti lettere c) e g), con il  risultato  di
esporre la norma ad una antinomia intrinseca che non  sembra  trovare
alcuna giustificazione. 
    Una seconda evidenza del denunziato eccesso risiede  nell'assenza
della previsione autorizzativa all'introduzione di peculiari  criteri
di individuazione del limite edittale. 
    Se la disciplina ordinaria in fatto di individuazione della  pena
e' quella prevista dall'art.  4  (e  dall'art.  278,  sostanzialmente
identico),  l'introduzione  di  deroghe  peggiorative  non  puo'  che
avvenire per effetto di una legge che un tanto prevede. 
    Attesi i riflessi sostanziali che la norma in esame importa,  non
e' dubitatile che il tutto risponda al principio di riserva  assoluta
di legge, e ai principi di tassativita' e determinatezza cui  debbono
rispondere le norme penali. 
    La  peculiare  trama  introdotta  dall'art.  131-bis  del  codice
penale, comma 4,  in  antitesi  alle  norme  ordinarie,  autorizza  a
valorizzare la recidiva reiterata, la continuazione, ed  inibisce  il
ricorso ad ogni  bilanciamento  ex  art.  69  del  codice  penale  in
presenza di circostanze speciali o ad effetto speciale (ivi  compresa
la citata recidiva reiterata). 
    Una terza evidenza che autorizza a ritenere ci si  trovi  innanzi
ad eccesso di delega e' rappresentata dal  «giudizio  di  necessita'»
(Corte costituzionale  sentenza  n.  56/1965).  Ci  si  deve  infatti
interrogare se l'evasione della  legge  delega  nei  modi  e  con  il
contenuto di cui all'art.  131-bis  del  codice  penale  si  pone  in
termini di necessario ossequio  (ontologicamente  o  logicamente)  al
vincolo discendente dalla legge delegante. 
    Sul piano  ontologico,  e'  chiaro  che  la  costituzione  di  un
criterio di individuazione della pena con caratteristiche inedite nel
codice di rito e l'esplicita inibizione al giudizio di  bilanciamento
non costituiscono affatto esercizio necessitato della  legge  delega,
avendo il Parlamento  lasciato  sul  punto  una  marginalita'  ampia,
figlia del piano riferimento al limite edittale dei cinque anni. 
    Sul  piano  logico,  poi,  vale  quanto  sopra   denunciato:   la
costituzione di vincoli novativi ed inediti nel computo della pena ed
il divieto  di  bilanciamento  tra  circostanze  confliggono  con  il
contenuto stesso della legge delega - lettere c) e g), e non  trovano
ragione alcuna di altra forma di legittimazione, ponendosi in termini
di ultroneita' e restrittivita'  rispetto  agli  ordinari  canoni  di
individuazione della pena. 
    Vi e' poi da precisare che la legge delega  produce  effetti  che
contrastano con il contenuto  di  norme  e  principi  sovranazionali,
segnatamente con l'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali della
UE, come sopra richiamato. 
    La valorizzazione della recidiva  nel  complessivo  saggio  sulla
offensivita'   o   meno   della   lesione   inflitta   e   la   coeva
impraticabilita'  di  qualsiasi  bilanciamento  di  essa  con   altre
circostanze concorrenti, propone un modello  di  perseguibilita'  del
tutto discrezionale, essenzialmente modulato sul  profilo  soggettivo
dell'incolpato che, dunque, estraneo alla causa di non punibilita' e'
sottoposto a sanzione penale  in  difetto  del  necessario  nesso  di
offensivita'. 
    Tale conflitto con  la  Carte  dei  diritti  fondamentali,  fonte
sovraordinata  di  rango  costituzionale  e,  dunque,  immediatamente
applicabile pienamente efficace nel diritto interno, espone la  legge
delegata a vizio di incostituzionalita'. 
    Esattamente  come  affermato  dalla  Corte  costituzionale  nella
sentenza n. 53/1993 ovvero, la piu' recente n. 219/2008, secondo  cui
l'incostituzionalita' (dell'art. 314 codice di procedura  penale)  e'
stata ricondotta anziche' all'art.  76,  al  mancato  rispetto  delle
norme internazionali ricavabili dalla Convenzione EDU,  e  dal  Patto
internazionale per i diritti civili e politici. 
    Al medesimo meccanismo di compenetrazione tra  il  profilo  della
violazione di principi e  criteri  impartiti  dalla  legge  delega  e
quello del mancato rispetto  delle  esigenze  derivanti  dal  diritto
internazionale, si rifanno  le  sentenze  di  incostituzionalita'  n.
109/1999 e n. 359/2000. 
    Vi e' un'ultima  evidenza.  Il  risultato  prodotto  dalla  legge
delegata e' antinomico alla ratio che ha ispirato la legge delega. In
molti casi, l'accertamento della sussistenza del vizio di eccesso  di
delega  passa   attraverso   una   ricognizione   compiuta   in   via
interpretativa  dalla  Corte  delle  finalita'  delle  legge   delega
medesima, all'insegna dell'individuazione del fine ultimo  perseguito
dal legislatore delegante. 
    La giurisprudenza costituzionale che ha dimostrato di avere fatto
impiego di tale criterio  e'  ben  rappresentata  dalle  sentenze  n.
129/1963, n. 56/1965, n. 8 e n. 50/1966, n. 258/1974 e altre. 
    Nel caso di specie e' appena il caso di annotare che la  prevista
inaccessibilita' al bilanciamento  tra  circostanze  apre  a  scenari
paradossali  secondo  i  quali  condotte  innocue,  e  dagli  effetti
patrimoniali vili  continuano  ad  essere  perseguite  e  sanzionate,
assecondando in tal  modo  scenari  incoerenti  rispetto  allo  scopo
perseguito, chiaramente ispirato alla deflazione ed al piu'  concreto
allineamento al principio di offensivita'. 
    La sottrazione di un  bene  di  infimo  valore  commesso  da  tre
persone riunite (furto monoaggravato) propone gia' una pena  astratta
che sfugge alla causa di esclusione della punibilita'. 
    Conclusivamente sul punto, a partire dalla sentenza  n.  24/1959,
la Consulta ha preso ad affermare che  «per  quanto  ampie  siano  le
facolta' delegate al Governo nei singoli casi, con la legge  delegata
non possono essere dettate norme in contrasto  con  quelle  contenute
nella stessa legge di delegazione; ne' si potrebbero mai  qualificare
norme di attuazione quelle che  contrastassero  con  le  norme  della
legge  alla  quale   dovrebbe   essere   data   attuazione».   [Corte
costituzionale sentenza citata]. 
    Per tutte le ragioni sopraindicate,  il  contenuto  conferito  in
sede di esercizio di delega all'art.  131-bis,  comma  4  del  codice
penale pare non rispettoso del contenuto della soprastante lettera m)
dell'art. 1, legge n. 67/2014, e cosi' in  contrasto  con  l'art.  76
Cost. 
Sulla rilevanza della questione ai fini del decidere. 
    Qualora la Corte delle leggi  convergesse  sulla  ricorrenza  del
vizio dedotto,  l'intero  comma  4  dell'art.  131-bis  cadrebbe  per
incostituzionalita', aprendo all'esegesi del comma 1  della  medesima
norma secondo criteri interpretativi analogici. 
    Su tale piano, a fronte del  vacuo  aperto  dalla  qui  auspicata
censura  di  illegittimita'  costituzionale,  il  Tribunale  potrebbe
dunque accedere all'impiego dei criteri di individuazione della  pena
di cui all'art. 278 codice di procedura penale, seguendo quanto  gia'
previsto all'interno della stessa legge delega, alle diverse  lettere
c) e g) e,  bilanciando  la  circostanza  attenuante  comune  di  cui
all'art. 62.4  del  codice  penale  in  regime  di  prevalenza  sulle
contestate aggravanti, ricondurre la pena edittale al  di  sotto  dei
cinque anni di reclusione e cosi' applicare la  causa  di  esclusione
della punibilita'. 
    Donde la chiara rilevanza della questione dedotta. 
    3) Questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  131-bis,
comma 4 del codice penale,  ultimo  capoverso,  come  introdotto  dal
decreto legislativo n. 28/2015 del 16 marzo 2015, per  contrasto  con
gli articoli 3, 25.2 e 27.3 della Costituzione, nonche'  nella  parte
in cui, dopo le parole «non si tiene conto delle circostanze», non e'
scritto  «fatta  eccezione  della  circostanza  attenuante   prevista
dall'art. 62, n. 4 del codice penale». 
    In via aggiuntiva ed in termini indipendenti,  seppur  collegati,
dai temi sopra affrontati, sembra ineludibile sottoporre a  scrutinio
incidentale di costituzionalita' il comma  4  dell'art.  131-bis  del
codice penale, secondo una duplice censura. 
    A) Sul divieto di bilanciamento tra circostanze. 
    Del tutto imprevista dalla  legge  delega,  la  disposizione  qui
dubitata in parte qua prescrive la inapplicabilita' della  disciplina
di parte  generale  che  regola  il  giudizio  di  bilanciamento  tra
circostanze Tale norma funge da strumento essenziale  ai  fini  della
corretta ponderazione degli elementi accessori del reato, assicurando
criteri moderatori di stretto favor rei idonei a  stemperare  effetti
altrimenti poco controllabili derivanti dal concorso  di  circostanze
aggravanti ad effetto speciale. 
    L'opzione esercitata in legge delega apre alla violazione di piu'
canoni costituzionali. 
Violazione del parametro di cui all'art. 3 Cost. 
    «Come e' stato sottolineato  da  questa  Corte,  il  giudizio  di
bilanciamento tra  circostanze  eterogenee  consente  al  giudice  di
"valutare il fatto in  tutta  la  sua  ampiezza  circostanziale,  sia
eliminando  dagli   effetti   sanzionatori   tutte   le   circostanze
(equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas
delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono" (sentenza  n.
38 del  1985).  Deroghe  al  bilanciamento  pero'  sono  possibili  e
rientrano  nell'ambito  delle  scelte  del  legislatore,   che   sono
sindacabili da questa Corte "soltanto ove trasmodino nella  manifesta
irragionevolezza o nell'arbitrio" (sentenza n. 68 del  2012),  ma  in
ogni caso non possono giungere  a  determinare  un'alterazione  degli
equilibri  costituzionalmente  imposti  nella  strutturazione   della
responsabilita' penale; alterazione che, come si vedra',  emerge  per
piu'  aspetti  nella  situazione  normativa  in   questione»   [Corte
costituzionale, sentenza n. 251/2012]. 
    Proprio in tema di valorizzazione della recidiva  qualificata  in
misura prevalente sul parco delle circostanze  disponibili  la  Corte
costituzionale  ha  iteratamente   spiegato   interventi   demolitivi
dell'art. 69, comma 4 del codice penale, gli ultimi dei quali con  le
note sentenze n. 104/2014 e n. 106/2014. 
    Gli argomenti esposti in quelle pronunce (compiutamente allineati
a quelli di cui alla sentenza n. 251/2012) illuminano  al  meglio  la
violazione del principio di uguaglianza inveratasi anche nella  norma
qui dubitata. 
    «La recidiva reiterata "riflette i due aspetti della colpevolezza
e della pericolosita', ed e' da  ritenere  che  questi,  pur  essendo
pertinenti  al  reato,  non  possano  assumere,   nel   processo   di
individualizzazione  della  pena,  una  rilevanza  tale  da  renderli
comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio
di offensivita'  e'  chiamato  ad  operare  non  solo  rispetto  alla
fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto  a  tutti  gli
istituti che incidono sulla individualizzazione della  pena  e  sulla
sua  determinazione  finale.  Se  cosi'  non  fosse,   la   rilevanza
dell'offensivita'   della   fattispecie   base   potrebbe   risultare
"neutralizzata" da un processo di individualizzazione prevalentemente
orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosita'» (sentenza n.  251
del 2012)» [Corte costituzionale, sentenza n. 104/2014]. 
    Nella stessa pronuncia, poi, la Corte non  manca  di  evocare  la
lesione costituzionale qui esplicitamente  ricondotta  al  canone  di
uguaglianza, proprio avuto riguardo  alle  irragionevoli  alterazioni
che si producono in danno dei cittadini gravati da recidiva. 
    «Inoltre (...) la norma censurata da' luogo ad una violazione del
principio di uguaglianza, perche' il recidivo reiterato autore di una
ricettazione di normale o anche di rilevante gravita', da punire,  in
presenza delle attenuanti generiche, con  il  minimo  edittale  della
pena  stabilita  dall'art.  648,  primo  comma  del  codice   penale,
riceverebbe  lo  stesso  trattamento  sanzionatorio  -   quest'ultimo
irragionevolmente severo - spettante al recidivo reiterato, cui  pure
siano riconosciute le attenuanti generiche, ma autore di un fatto  di
"particolare tenuita'" [Corte costituzionale, sentenza n. 104/2014]. 
    Il richiamo alla recidiva qualificata e'  centrale  ai  fini  del
presente ragionamento: senza mai nominare  esplicitamente  la  figura
dell'art. 99 del codice penale in tutta la  trama  dell'art.  131-bis
del codice penale, il legislatore delegato, mediante l'inibizione  al
giudizio di bilanciamento, ha di fatto escluso i soggetti attinti  da
recidiva qualificata da qualsiasi possibile fruizione della causa  di
non punibilita'. 
    Una scelta che, poggiata  sul  gia'  dedotto  automatismo,  entra
necessariamente in conflitto con il canone di eguaglianza. 
Violazione del parametro di cui all'art. 25.2 Cost. 
    Sussiste altresi' la violazione dell'art. 25.2 Cost., che, con il
suo  espresso  richiamo  al  «fatto  commesso»,   riconosce   rilievo
fondamentale all'azione delittuosa per il suo obiettivo  disvalore  e
non solo in quanto manifestazione  sintomatologica  di  pericolosita'
sociale; la  costituzionalizzazione  del  principio  di  offensivita'
implica la necessita' di  un  trattamento  penale  differenziato  per
fatti diversi, senza che la considerazione della  mera  pericolosita'
dell'agente   possa   legittimamente   avere    rilievo    esclusivo.
Pericolosita' che, a parita' di offesa, viene gia' in evidenza  nelle
valutazioni ex art. 133 del codice penale. 
    L'attuale   inibizione   alla   valutazione   delle   circostanze
attenuanti comuni, unito  al  divieto  di  bilanciamento  tra  quelle
speciali o ad effetto speciale, elementi costitutivi di  uno  statuto
differenziale in grado di discriminare l'accessibilita' all'istituto,
determina un contrasto tra  la  disciplina  censurata  e  l'art.  25,
secondo comma, Cost., che pone il fatto (e  solo  quello)  alla  base
della responsabilita' penale (sentenza  n.  249  del  2010)  e  della
superiore  volonta'  politica  di  accertarne  la  sussistenza,   con
esclusione di qualsivoglia componente soggettiva di  rango  premiale,
riposante sulla maggiore o minore consuetudine al crimine. 
    La  Consulta  ha  recentemente  ricordato  che  «il  giudizio  di
bilanciamento tra  circostanze  eterogenee  consente  al  giudice  di
"valutare il fatto in  tutta  la  sua  ampiezza  circostanziale,  sia
eliminando  dagli   effetti   sanzionatori   tutte   le   circostanze
(equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas
delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono" (sentenza  n.
38 del  1985).  Deroghe  al  bilanciamento  pero'  sono  possibili  e
rientrano  nell'ambito  delle  scelte  del  legislatore,   che   sono
sindacabili da questa Corte "soltanto ove trasmodino nella  manifesta
irragionevolezza o nell'arbitrio" (sentenza n. 68 del  2012),  ma  in
ogni caso "non possono giungere a  determinare  un'alterazione  degli
equilibri  costituzionalmente  imposti  nella  strutturazione   della
responsabilita'  penale"  (sentenza  n.   251   del   2012)»   [Corte
costituzionale, sentenza n. 106/2014]. 
Violazione del parametro di cui all'art. 27.3 Cost. 
    Scrive   la   Consulta   a   sostegno   della   declaratoria   di
illegittimita' costituzionale di cui alla sentenza n.  251/2012.  «E'
fondata anche la censura formulata dal giudice a quo in relazione  al
principio di proporzionalita'  della  pena  (art.  27,  terzo  comma,
Cost.). La disciplina censurata, nel precludere la  prevalenza  delle
circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata,  realizza,  come  e'
stato  gia'  rilevato  da  questa  Corte  con  riferimento  ad  altra
fattispecie, "una deroga rispetto a un principio generale che governa
la complessa attivita' commisurativa della pena da parte del giudice,
saldando i criteri di  determinazione  della  pena  base  con  quelli
mediante  i  quali  essa,  secondo   un   processo   finalisticamente
indirizzato dall'art. 27, terzo comma,  Cost.,  diviene  adeguata  al
caso di specie anche per mezzo dell'applicazione  delle  circostanze"
(sentenza n. 183 del 2011); nel caso in esame,  infatti,  il  divieto
legislativo  di  soccombenza  della   recidiva   reiterata   rispetto
all'attenuante dell'art. 73, comma  5,  del  decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 309 del 1990 impedisce il necessario adeguamento,
che dovrebbe avvenire attraverso l'applicazione della pena  stabilita
dal legislatore per il fatto di "lieve  entita'".  L'incidenza  della
regola preclusiva sancita  dall'art.  69,  quarto  comma  del  codice
penale sulla diversita' delle cornici edittali prefigurate dal primo,
e dal quinto comma dell'art. 73  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 309 del 1990, che  viene  annullata,  attribuisce  alla
risposta   punitiva   i   connotati   di   «una   pena    palesemente
sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita  come  ingiusta
dal condannato» (sentenza n. 68  del  2012).  [Corte  costituzionale,
sentenza citata]. 
    Il  legislatore  delegato  ha  destituito  di  alcun  valore   la
ricorrenza  di  eventuali  circostanze  comuni.  Ha  poi  vietato  la
possibilita' di bilanciare quelle speciale  e  ad  effetto  speciale.
Tale effetto distorsivo si riverbera sul computo dei limiti  edittali
ai fini della riconducibilita' o meno del reato sotto  l'egida  della
clausola di non punibilita'. 
    Il risultato e' l'esposizione  a  punizione  penale  di  condotte
dall'impatto sostanzialmente insensibile, con evidente violazione del
canone di proporzionalita' di cui all'art. 27.3 Cost. 
    B) Sulla mancata previsione di poter considerare  la  circostanza
attenuante comune di cui all'art. 62, n. 4 del codice penale. 
    La disposizione qui  dubitata  porta  in  se'  altri  profili  di
illegittimita'. 
Violazione del parametro di cui all'art. 3 Cost. 
    L'attuale previsione di irrilevanza delle circostanze  attenuanti
comuni, se non mitigata nei sensi  di  cui  all'art.  278  codice  di
procedura penale, espone la norma a  risultati  applicativi  alquanto
incoerenti, secondo cui neppure la palese modestia del danno inflitto
vale a bilanciare qualsivoglia circostanza antagonista. 
    In  effetti,  neppure  il  cosidetto  incensurato   sfugge   alle
conseguenze irragionevoli gia' enunciate con riferimento ai  recidivi
reiterati. 
    Si e' sopra esposto un esempio  degli  effetti  distorti  che  si
possono manifestare a cagione dell'impossibilita' di  bilanciare  gli
elementi accessori del reato (furto di un bene vile, ma monoaggravato
dalla circostanza piu' innocua): l'odierno squilibrio normativo rende
impossibile discernere  tra  autore  di  una  condotta  connotata  da
maggiore  pericolosita'  esecutiva  (violenza  sulle  cose,  minorata
difesa o altro) e  fatti  del  tutto  bagatellari,  ma  aggravati  in
termini idonei ad essere bilanciati. 
    Sul punto,  la  Corte  costituzionale,  in  tema  di  divieto  di
prevalenza della circostanza diminuente di cui all'art.  609-bis  del
codice penale sulla recidiva reiterata, ha osservato  che  «anche  la
censura relativa al principio di  uguaglianza  e'  fondata,  perche',
come ha rilevato la Corte rimettente, fatti anche di  minima  entita'
vengono,  per  effetto  del   divieto   in   questione,   ad   essere
irragionevolmente sanzionati con la stessa pena, prevista  dal  primo
comma dell'art. 609-bis codice panale, per  le  ipotesi  di  violenza
piu' gravi, vale a dire per condotte che, pur aggredendo il  medesimo
bene giuridico, sono completamente diverse, sia per le modalita', sia
per il danno arrecato alla vittima». [Corte costituzionale,  sentenza
n. 106/2014]. 
    Quanto si va dicendo, del resto, trova fondamento avuto  riguardo
al contenuto dell'art. 278 codice di procedura penale, che proprio la
circostanza di cui all'art. 62.4 del codice penale elenca  in  deroga
al divieto di valorizzazione delle altre circostanze comuni. 
    La  ricorrenza  di  tale  deroga  e'  funzionale  al  prospettato
ragionamento non solo e non tanto al fine di individuare  un  tertium
comparationis  utile  a  sostenere  un  giudizio   di   irragionevole
disparita' di trattamento in casi analoghi. Cio' che pare decisivo e'
il richiamo interno alla legge delega (alle citate lettere  c)  e  g)
all'art. 278 codice di procedura  penale)  che  impone  un  raffronto
tutto interno alla legge stessa. 
    Non appaiono evidenti le ragioni di un trattamento differenziale:
per gli scopi di cui alle lettere c) e g) la  circostanza  attenuante
comune di cui all'art. 62, n. 4 del  codice  penale  e'  rilevante  e
bilanciabile ma non invece per  saggiare  compiutamente  la  condotta
dell'imputato al fine di escluderne la punibilita'. 
    Nemmeno  appare  improntato  a  ragionevolezza  differenziare   i
criteri di individuazione  dei  limiti  edittali  per  l'applicazione
delle misura cautelari  di  cui  all'art.  278  codice  di  procedura
penale, da quelli regolanti la  punibilita',  in  punto  di  concreto
apprezzamento della lesione patrimoniale, ovverossia su  terreno  del
tutto neutro ed oggettivo. 
    C'e' infine un ulteriore profilo di illogicita' che  affligge  la
denunziata carenza normativa, interno al testo dell'art.  13-bis  del
codice penale al quinto ed ultimo comma 
    Tale comma, prevede che anche a fronte  di  esplicite  previsioni
circostanziali relative alla  tenuita'  del  danno,  si  fa  comunque
applicazione del contenuto del comma 1. 
    Siddetta disposizione vorrebbe assicurare il  diritto  ad  essere
prosciolti con la causa di non  punibilita'  anche  quando  il  reato
commesso potrebbe essere circostanziato con la  relativa  diminuente,
comune o speciale. 
    E tuttavia, per  gli  effetti  ostativi  che  qui  si  chiede  di
rimuovere   attraverso   l'incidente   di    costituzionalita',    la
concedibilita' della circostanza diminuente di cui all'art. 62, n.  4
del codice penale resta priva di alcuna efficacia, con  l'effetto  di
esporre la norma ad una  antinomia  tutta  interna  alla  sua  stessa
trama. 
Violazione del parametro di cui all'art. 25.2 Cost. 
    L'interdizione  a  valorizzare,  in  qualsiasi  modo,  l'elemento
circostanziale che piu' di ogni altro riconduce  al  modesto  impatto
patrimoniale il danno da reato, espone la norma in parte qua a sicuro
conflitto con il  canone  costituzionale  di  cui  al  comma  secondo
dell'art. 25 della Carta. 
Violazione del parametro di cui all'art. 27.3 Cost. 
    Analogamente a quanto gia' sostenuto nelle sezioni precedenti, la
sproporzione  della  sanzione  che  deriva  dalla  impossibilita'  di
considerare la diminuente di cui si dice rende palese  la  violazione
anche del principio di proporzionalita' di cui all'art. 27.3 Cost. 
Sulla complessiva rilevanza della questione ai fini del decidere. 
    Qualora  il  Tribunale  ritenesse  di  giungere  a  giudizio   di
responsabilita' a carico dell'imputata, la sua  punibilita'  potrebbe
essere esclusa mediante un  corretto  bilanciamento  tra  circostanza
comune di cui all'art. 62, n. 4 e le contestate aggravanti. 
    Ad oggi, l'impossibilita' di considerare l'attenuante della lieve
entita' del danno subito e la coeva impossibilita' di bilanciarla con
le  aggravanti  ad  affetto  speciale  contestate  in   atti   espone
l'imputata ad una sanzione penale altrimenti ingiustificabile. 
    Donde la rilevanza massima delle questioni proposte. 
Sulla non manifesta infondatezza della questione proposta. 
    In tal senso ci si riporta a quanto gia' dedotto sopra. 
    Alla luce di quanto sopra, letti ed applicati  gli  articoli  134
della Costituzione e 23, comma 2, legge 11 marzo 1953, n. 87.